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CRONO SILENTE

(poesia, 2011, Prova d’Autore)

 

Dove si va, intrecciando le proprie dita a quelle di Grazia Calanna? Dita di mani o di piedi? Tutte, e quindi dove si va se ci si può ferire con spilli arrugginiti o rischiare di restare, per sempre, immobilizzati dentro un fosso di lacrime di pece? Si va, senza un’attesa di risposte, sotto vulcani di Sicilia e tane per conigli dagli occhi color mavì, tra contrabbassisti e violinisti che hanno perduto il senno e ancora quella pece, per corde che stonano qualunque canto pensato per omaggiare il mare. O chi? Crono? L’assassino di se stessi clonati può essere cantato in versi? Può, temendogli l’immaginazione, perdonandogli la crudeltà, raccogliendogli la sorte.

Pensiero /si espande /- lentamente - / Penetra /- bramoso - / tra le viscere / Vita / - sdrucciola - / altrove… / È gas / - intorno - / Il vuoto / tra le stanche mani

Crono è il vulcano che si china sui propri lapilli ancora tiepidi, che vi sputa sopra impedendogli l’estremo gusto per la vita che concede perfino un’agonia.

Dunque abbiamo deciso di intrecciare le dita a quelle di questa poetessa portatrice sana di solitudine: non sarà semplice il cammino, l’ho detto dal principio. Una solitudine senza colpe, ma che colpe diventano, macigni, come quello avuto in fasce, figlio, da Crono. Così dice la mitologia, che torna ad accompagnare le esistenze, maschili o femminili che siano. Solo penetrando il mito di Crono possono apparire limpide le parole di Grazia Calanna, esposte senza abiti, senza culle, senza carillon pietosi negli imbrunire silenziosi, amputati. Il frastuono del silenzio / sgretola l’anima / Stilla dopo stilla / la vita si scioglie / senza mai sorrisi/recisi…senza mai certezze/carezze… Perché? Perché la lama dell’impotenza trafigge il cuore inondando il cammino di fiumi color porpora…

Si attende, di fronte a un mare di carta marmorea priva d’onde e di balocchi, la secca del fiume, per poter dire, finalmente, Adesso la mia colpa cadrà dentro l’assenza dell’attesa. Forse anche la nebbia mensile, puntuale come una ghigliottina, come una gogna, scomparirà.

Sono certa che un candido coniglio saprà lasciare il suo comodo cilindro di magie per consolare quei precipizi di pungente lucidità che assillano l’intera scrittura di una poetessa che dovrà imparare a scordare Crono, per sopravvivere. Se imparerà che dalla sozza melma sono capaci di sbocciare piccole pietre di pece di Sicilia, limpide, figlie. Solo allora smetterà di dialogare con i fantasmi diurni delle sue giornate gessate, e camminerà con indomita fierezza, senza desiderare la distruzione della sincerità degli specchi, una volta messa a tacere la “convenienza” dell’omologazione. Chi aveva suonato gelidi assoli, tacerà l’indiscrezione, laverà la lama indifferente alla carne già ferita. Nasceranno nuove orchestre con voci differenti di inutili nutrici, e saranno canti e suoni mai uditi in alcun luogo, non semplici, ma sinceri, non felici, ma capaci di preferire la burla al serio. Sarà questo il momento in cui anche gli oggetti zitti mostreranno la lingua e il riso, senza pentimento nello svolgimento della loro vita.

Grazia Calanna. Il principio fu il mito di Crono, silente. Silente non lo è stato. Non per me avvezza ad ascoltare più il disagio che la comodità. Ad essere, più il disagio che la comodità.

Lascio ad altri il compito saggio di “esaminare” e “definire” la scrittura dell’autrice di questo meraviglioso poemetto. Non l’ho letto in quanto “critica”. L’ho letto, e ingoiato amaramente, in quanto donna destinata (forse da un dio contemporaneo?) ad uccidere i propri embrioni. La mia lettura è quindi certamente distorta dagli specchi che continuo, ostinatamente, a tenere appesi alle pareti. Grazia Calanna mi perdonerà: la generosità dei suoi versi mi porta a pensarlo. Versi privi di ninnoli e di acchiappasogni. Nessuna moina in questo volume: fatti.

Sarà difficile staccare le mani da quelle di Grazia Calanna: alla conclusione dei suoi versi, la sua pece sarà divenuta anche la nostra. Oblìo cinerino. Mancate coincidenze. Intraducibile silenzio.

 

(dalla prefazione di Savina Dolores Massa)